venerdì 28 maggio 2010

Il museo Majakovskij a Mosca



Non è semplice rintracciarlo, sebbene si trovi nei pressi della centrale piazza su cui si affaccia la Lubyanka.
L’ingresso non è immediatamente visibile, vi si accede da un vicoletto di passaggio, stretto tra le pareti di una grande costruzione con uffici e piccoli negozi.

L’ultimo edificio in cui Majakovskij ha abitato  è stato anni fa letteralmente sventrato per consentire l’innesto, al suo interno, di un originale impianto museale. Un insolito percorso in parte elicoidale conduce verso la stanza in cui il poeta si tolse la vita. Ascendendo lentamente verso questo ambiente, conservato più o meno come Majakovskij doveva averlo visto per l’ultima volta, è possibile entrare nella dimensione mossa, dinamica, anticonvenzionale dei primi decenni del Novecento. Le testimonianze, i documenti sono inquadrati in pannelli, pareti, volumi irregolari. Prevalgono i colori violenti, stridenti. Il richiamo al futurismo è palpabile così come l’atmosfera degli anni in cui Majakovskij operò. Agli scritti si alternano disegni del poeta, oggetti personali, foto a cui ci si accosta in modo sempre diverso, visto il particolare e sorprendente allestimento. Il suggestivo percorso si conclude con la visione, improvvisa, della stanza del poeta, un ambiente semplice, scabro quasi, dopo tanti colori, unico spazio rimasto intatto dopo la ristrutturazione.
L’impatto è brusco, sorprende, paralizza ed è reso ancora più forte, più acuto, dalla visione della polvere che il tempo ha lasciato e che nessuno ha più rimosso chissà a partire da quale momento, così come l’odore acre dell’umidità che ha intriso le tappezzerie. Sulla soglia, dei fiori, forse rose.

martedì 25 maggio 2010

luce

sabato 22 maggio 2010

hotel metropol - Mosca -

Esistono luoghi “ad alta densità” di storia, di fascino, come se le parole, i pensieri, le emozioni, l'energia delle persone che hanno occupato questi spazi non fossero mai trascorsi  ma continuassero ad ispirare, in chi li avverte, sottili e preziose  impressioni.                                                     L’hotel Metropol di Mosca è uno di questi.
Ci sono stata lo scorso anno, in estate.
                                                              
Qui
-  Lewis Carrol ideò Alice ( dicono, mi piace pensarlo, ma mi sembra poco probabile )
- fu dislocata dai bolscevichi la sede del Comitato Esecutivo Centrale di Tutta la Russia - il RCEC.
- vissero e lavorarono Chicherin, Sverdlov, e Bukharin
 - durante la Seconda Guerra Mondiale, alloggiarono i corrispondenti dei più importanti giornali occidentali e al suo interno fu allestito un centro stampa.
- Stalin brindò alla vittoria nella Grande Guerra Patriottica, attingendo vino direttamente dalla fontana posta al centro dell’elegante sala - ristorante
- Michael Jackson compose,nel ’93, uno dei suoi pezzi più    intimi, Stranger in Moscow.
Sulle pareti dei silenziosi saloni del terzo e quarto piano, sorridono, nelle foto incorniciate, i volti di attori, di cantanti, di tante personalità che hanno lasciato traccia di sé nel mondo della cultura, dell’arte, della politica e che hanno percorso i lunghi corridoi del Metropol.


L’albergo, con le sue eleganti vetrate policrome ed i suoi interni raffinati ed armoniosi, è ritenuto un capolavoro dell’Art Nouveau. Deve la sua nascita al mecenate S. Mamontov che chiamò giovani artisti e architetti di talento come Walcott, Vrubel, Kekushev e Chekhonin.

Si affaccia su  Teatralny proedz, a pochi passi dal Bolshoi e dalla Piazza Rossa.

giovedì 20 maggio 2010

su




-" Viviamo in un simile splendore e non lo vediamo! ( ... )
-  Perchè smettiamo di vedere le cose crescendo?
-  Esattamente perchè cresciamo. Impariamo le dure leggi della sopravvivenza che ci costringono a concentrarci su quello che è utile. I nostri occhi disimparano la bellezza"


Amelie Nothomb, Il viaggio d'inverno











lunedì 17 maggio 2010

" Se questo è un uomo " di Primo Levi

"A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che “ogni uomo straniero è nemico “. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come un’infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora al termine della catena sta il Lager."  ( P. Levi, Se questo è un uomo  )


Primo Levi, chimico torinese, ebreo, oltre che partigiano, fu catturato dai fascisti alla fine del’43. Dopo essere stato internato nel campo di Fossoli, venne deportato nel ’44 ad Auschwitz dove rimase fino alla liberazione per opera dei soldati sovietici.


Le prime pagine del libro sono destinate al racconto del momento della deportazione:

"Qui ci attendeva il treno (…) .Qui ricevemmo i primi colpi. E la cosa fu così nuova e insensata che non provammo dolore, nel corpo, né nell’anima. Soltanto uno stupore profondo: come si può percuotere un uomo senza collera?
I vagoni erano dodici , e noi seicentocinquanta. Ecco dunque, sotto i nostri occhi, sotto i nostri piedi,  una delle famose tradotte tedesche, quelle che non ritornano, quelle di cui fremendo e sempre un poco increduli,  avevamo così spesso sentito narrare. (… )Questa volta dentro siamo noi."

 Dopo quattro giorni il convoglio arriva a destinazione. Solo centoventi vengono selezionati per i campi di lavoro, gli altri cinquecento vengono mandati direttamente nelle camere a gas. Primo Levi va a Monowitz, dove si trova una fabbrica, la Buna, in cui si produce gomma.
La dimensione del lager è , al primo impatto, così inverosimile da determinare negli internati uno stato di totale disorientamento. Si perde coscienza di sé, così come del tempo.

"Nulla è più nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo. (… ) Accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; (… ) Si comprenderà allora il duplice significato del termine “ Campo di annientamento “."


Il regolamento e le norme esplicite ed implicite  che vigono nel lager costituiscono il corpo dei capitoli successivi a quello introduttivo. Tra le procedure paradossali, apparentemente incomprensibili in una dimensione desolata e disperata come quella del lager,  Levi descrive il rito delle marce di entrata e di uscita dal lavoro accompagnate da musica:

"I motivi sono pochi, (...)sono la voce del lager, l’espressione sensibile della sua follia geometrica, della risoluzione altrui di annullarci prima come uomini per ucciderci poi lentamente.
Quando questa musica suona, noi sappiamo che i compagni, fuori nella nebbia, partono in marcia come automi; le loro anime sono morte e la musica le sospinge come fa il vento con le foglie secche, e si sostituisce alla loro volontà. Non c’è più volontà: ogni pulsazione diventa un passo, una contrazione riflessa di muscoli sfatti. (… ) Alla marcia di uscita e di entrata non mancano mai le SS. Chi potrebbe negare loro il diritto di assistere a questa coreografia da loro voluta, alla danza degli uomini spenti (… ) ?"

Le considerazioni appena riportate vengono fatte da Levi durante i giorni passati in infermeria, l’unico luogo in cui diviene davvero possibile prendere coscienza di ciò che succede nel campo. Naturalmente tale consapevolezza procura sofferenza, un tipo di dolore diverso da quello derivante dalle disumane condizioni di sopravvivenza nel lager.
La sofferenza si traduce, nei rari sogni notturni, in una situazione ricorrente, quella di chi spiega ad una persona cara  ciò che sta succedendo ma trova solo indifferenza:
                                                                                                                                                          "Alberto mi ha confidato, con mia meraviglia, che questo è anche il suo sogno, e il sogno di molti altri, forse di tutti. Perché questo avviene? Perché il dolore di tutti i giorni si traduce così costantemente , nella scena sempre ripetuta della narrazione fatta e non ascoltata ?"






Nel lager la lotta per la sopravvivenza avviene senza remissioni, perché ognuno è disperatamente solo. Chi è temuto è un candidato a sopravvivere . A chi ha, sarà dato, a chi non ha, sarà tolto, questa  la legge non scritta del lager. I “sommersi” soccombono per incapacità di adattamento. Sono già spenti e vuoti, già morti.

"Soccombere è la cosa più semplice: basta eseguire tutti gli ordini che si ricevono, non mangiare che la razione, attenersi alla disciplina del lavoro e del campo. L’esperienza ha dimostrato che solo eccezionalmente si può in questo modo durare più di tre mesi. Tutti i mussulmani ( i “sommersi” ) che vanno al gas hanno la stessa storia. Entrati in campo, per loro essenziale incapacità, o per sventura, o per un qualsiasi banale incidente, sono stati sopraffatti prima di aver potuto adeguarsi; sono battuti sul tempo, non cominciano ad imparare il tedesco e a discernere qualcosa nell’infernale groviglio di leggi e divieti, che quando il loro corpo è già in sfacelo."


Chi riesce invece a sopravvivere? Chi sono “ I salvati “ ?  Levi dice che sopravvive al lager chi riesce ad avere qualche incarico ( Kapos, infermieri, cuochi, scopini … ):

"Essi sono il tipico prodotto della struttura del lager tedesco: si offra ad alcuni individui in stato di schiavitù una posizione privilegiata, (… ) esigendone in cambio il tradimento della naturale solidarietà coi loro compagni, e certamente vi sarà chi accetterà. (… ) Quando gli venga affidato il comando di un manipolo di sventurati con diritto di vita e di morte su di essi, sarà crudele e tiranno, perché capirà che se non lo fosse abbastanza, un altro, giudicato più idoneo, subentrerebbe al suo posto. Inoltre avverrà che la sua capacità di odio rimasta inappagata in direzione degli oppressori, si riverserà, irragionevolmente, sugli oppressi: ed egli si troverà soddisfatto quando avrà scaricato sui suoi sottoposti l’offesa ricevuta dall’alto."

Ma, oltre a questi, Levi individua tra i “ salvati “ una vasta categoria di prigionieri composta da chi dà battaglia ogni ora alla fatica, alla fame, al freddo, resiste ai nemici e non ha pietà per i rivali nella lotta per la sopravvivenza, strozza ogni dignità e spegne ogni lume di coscienza per scendere in campo da bruto contro altri bruti.
Il sopravvivere senza aver rinunciato a nulla del proprio mondo morale, non è stato concesso, dice Levi, che a pochissimi individui superiori, della stoffa dei martiri o dei santi.

"Vorremmo far considerare come il Lager sia stato(… ) una gigantesca esperienza biologica e sociale. (… ) Si rinchiudano tra i fili spinati migliaia di individui diversi (… ) e siano quivi sottoposti a un regime di vita costante, controllabile, identico per tutti ed inferiore a tutti i bisogni: è quanto di più rigoroso uno sperimentatore avrebbe potuto istituire per stabilire cosa sia essenziale e che cosa acquisito nel comportamento dell’animale uomo di fronte alla lotta per la vita. (… )Noi non crediamo alla più ovvia e facile deduzione: che l’uomo sia fondamentalmente brutale, egoista e stolto(… ) ma, piuttosto che (… ) di fronte al bisogno e al disagio fisico assillanti, molte consuetudini e molti istinti sociali sono ridotti al silenzio.
Ci pare comunque degno di attenzione un fatto : viene in luce che esistono fra gli uomini due categorie ben distinte: i salvati e i sommersi. Questa divisione è molto meno evidente nella vita comune (… ), perché normalmente l’uomo non è solo e, nel suo salire e nel suo discendere, è legato al destino dei suoi vicini(… ). Inoltre ognuno possiede di solito riserve tali, spirituali, fisiche e anche pecuniarie, che l’evento di un naufragio, di una insufficienza davanti alla vita, assume una anche minore probabilità. Si aggiunga ancora che una sensibile azione di smorzamento è esercitata dalla legge e dal senso morale, che è legge interna (… ). Ma in Lager avviene altrimenti: qui la lotta per sopravvivere  è senza remissione perché ognuno è disperatamente, ferocemente solo."


Tra gli individui che riescono a conservare una umanità pura e incontaminata, un uomo, Lorenzo.
Questo è quanto Levi dice di lui:
"Io credo che proprio a Lorenzo debbo di essere vivo oggi: e non tanto per il suo aiuto materiale, quanto per avermi costantemente rammentato, con la sua presenza, con il suo modo così piano e facile di essere buono, che ancora esisteva un mondo giusto al di fuori del nostro, qualcosa e qualcuno ancora di puro e intero, di non corrotto e selvaggio, estraneo all’odio e alla paura."
Per tutti gli altri il giudizio è ben diverso:
"I personaggi di queste pagine non sono uomini. La loro umanità è sepolta, sotto l’offesa subita o inflitta altrui, (… ) accomunati in una unitaria desolazione interna."

Levi deve la sua sopravvivenza anche e soprattutto ad una circostanza fortunata. Ha l’opportunità, infatti, come chimico, di avere un incarico nel laboratorio della Buna. In realtà continuerà a svolgere mansioni secondarie e non attinenti alla sua qualifica, ma la sua condizione migliorerà sensibilmente.
Con amara ironia, Levi spiega anche un altro meccanismo che gli ha consentito di tirare avanti:
"Quando piove si vorrebbe piangere,(…  ) bisogna cercare di muoversi il meno possibile (… )perché non accada che qualche altra porzione di pelle venga senza necessità a contatto con gli abiti zuppi e gelidi. E’ una fortuna che oggi non tira vento. Strano, in qualche modo si ha sempre l’impressione di essere fortunati, che una qualche circostanza, magari infinitesima, ci trattenga sull’orlo della disperazione e ci conceda  di vivere.
Piove ma non tira vento. Oppure, piove e tira vento: ma sai che stasera tocca a te il supplemento di zuppa, e allora anche oggi trovi la forza di tirar sera. O, ancora, pioggia, vento, e la fame consueta, e allora pensi che se proprio dovessi, se proprio non sentissi altro nel cuore che sofferenza e noia, (… ) che pare veramente di giacere sul fondo, ebbene anche allora noi pensiamo che se vogliamo, in qualunque momento, possiamo pur sempre andare a toccare il reticolato elettrico, o buttarci sotto i treni in manovra, e allora finirebbe di piovere."


Le ultime pagine dello scritto di Levi sono destinate a mettere in evidenza il sentimento della vergogna.
Dinanzi alla pubblica esecuzione di un deportato ribelle,
"siamo rimasti in piedi, curvi e grigi, a capo chino e non ci siamo scoperta la testa che  quando il tedesco ce l’ha ordinato. La botola si è aperta, il corpo ha guizzato atroce; la banda ha iniziato a suonare, e noi, nuovamente ordinati in colonna, abbiamo sfilato dinanzi agli ultimi fremiti del morente. (… ) Distruggere l’uomo è difficile, quasi quanto crearlo: non è stato agevole, non è stato breve, ma ci siete riusciti, tedeschi. Eccoci docili sotto i vostri sguardi: da parte nostra nulla più avere a temere: non atti di rivolta, non parole di sfida, neppure uno sguardo giudice."

Il sentimento della propria nullità, lo scoramento è tale che sebbene si fosse dato per imminente l’arrivo dei russi, nessuno riusciva davvero a credere nella possibile liberazione.
"Perché nei Lager si perde l’abitudine di sperare, e anche la fiducia nella propria ragione. In Lager pensare è inutile, perché gli eventi si svolgono per lo più in modo imprevedibile; ed è dannoso, perché mantiene viva una sensibilità che è fonte di dolore, e che qualche provvida legge naturale ottunde quando le sofferenze sorpassano un certo limite.   ( … )
Noi giacevamo in un mondo di morti e di larve. L’ultima traccia di civiltà era sparita intorno a noi e dentro di noi. (… ) non è uomo (… ) chi ha atteso che il suo vicino morisse per togliergli un quarto di pane (… ) e non è umana l’esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato cosa vicino all’altro uomo."

sabato 15 maggio 2010

Radio3 - Il Terzo Anello - Ad alta voce "Per chi suona la campana" di H. Hemingway





Una lettura ad alta voce del romanzo, preceduta da una introduzione di Fernanda Pivano.



Radio3 - Il Terzo Anello - Ad alta voce



Buon Ascolto!

giovedì 13 maggio 2010

"Per chi suona la campana "di E. Hemingway

Robert Jordan, docente di spagnolo in una università del Montana, lascia gli U.S.A. per arruolarsi nelle Brigate Internazionali. Morirà sulle colline tra Segovia e Madrid dopo aver fatto saltare un ponte, obiettivo strategico. Di Robert vengono narrati gli ultimi tre giorni di vita, quelli trascorsi preparando l’azione di guerra con i partigiani della banda di Pablo. Pur dandosi un tempo del racconto così breve, Hemingway, tuttavia, riesce, attraverso lunghi flash back ed intensi monologhi interiori del protagonista, a restituire un’immagine abbastanza definita della guerra civile spagnola e dell’ampio e variegato ventaglio di forze che supportavano l’esercito repubblicano. L’attenzione si concentra, in particolare, sui partigiani spagnoli che presidiavano il territorio occupato dai franchisti. Con loro, gente del popolo, senza istruzione, Robert, l’intellettuale, condivide gli ultimi giorni; tra loro trova Maria, la donna che gli farà provare un sentimento profondo, un amore pieno. Pablo, Anselmo, Pilar sono le figure meglio tratteggiate, quelle che incarnano l’anima popolare spagnola. Anselmo disarma per la sua semplicità. E’ l’uomo su cui Jordan sa subito di poter fare affidamento. Anselmo uccide solo se deve farlo; è animato da un sentimento di umana pietà che si estende anche ai suoi avversari. E’ il personaggio attraverso il quale Hemingway rende subito evidente il tema di fondo del romanzo, ovvero la crudezza della guerra, carattere costantemente emergente nelle diverse situazioni narrative e che tiene distante Hemingway dalla rappresentazione in chiave agiografica della resistenza repubblicana. Crudo è il resoconto che Pilar, la donna anziana del gruppo, fa della pubblica “mattanza” di fascisti ad opera dei partigiani guidati da Pablo, supportati dagli abitanti inferociti del paesino appena liberato. La sequenza è particolarmente significativa per l’attenzione prestata da Hemingway nel tratteggiare umori e reazioni della folla. E’ evidente che all’autore interessa descrivere la dinamica che determina le azioni,le motivazioni riposte, quelle non dichiarabili o non manifestabili che nelle situazioni estreme. Illuminante, a questo proposito, è il modo in cui Hemingway descrive Golz il generale delle Brigate Internazionali che ha affidato a Robert la missione di far saltare il ponte per rendere più agevole l’offensiva nella zona di Segovia. Nella parte finale del romanzo, il generale sovietico, pur potendo e dovendo fermare l’azione bellica, preferisce darle corso per non comprometterne il perfetto ordito, per non interrompere il sofisticato meccanismo già avviato. Golz sembra avere della guerra una visione estetica, tanto da portarne in secondo piano la funzione ideale, quella di battaglia per l’affermazione di princìpi democratici o per la tutela di quelle stesse vite in nome delle quali si dice di combattere. Le ragioni ideali, nel romanzo, continuamente si misurano con il fattore umano, con la fragilità dell’uomo, dando la sensazione che Hemingway dello scenario della guerra civile si serva essenzialmente per approfondire la conoscenza dell’uomo, dei suoi sentimenti, dai più elementari ai più complessi, dei moventi più oscuri delle sue azioni. La guerra civile diventa, in questo senso, una sorta di laboratorio ideale visto che, proprio in un contesto del genere, l’uomo si trova, volente o nolente, ad uscire allo scoperto, ad  affrontare se stesso e a mettersi alla prova. Non è un caso che in più momenti del romanzo venga sfiorato il tema della corrida. Come in guerra, nella corrida, vita e morte si guardano in faccia, si confrontano, si misurano. A portare il torero nell’arena è la volontà di affrontare la propria morte e poterle opporre la propria vitalità, la propria energia che  avverte tanto più forte quanto più si sente in grado di sostenere la vista della morte. L’ultima immagine che Hemingway ci lascia di Robert è quella di un uomo che, in modo non dissimile da un torero in un’arena, guarda venirgli incontro la morte e sente di dover ringraziare la vita per avergli dato l’intensità dell’amore di Maria, per avergli consentito di aver consapevolezza di sé e della propria forza fino alla fine.




La guerra civile spagnola ( 1936- 1939 )

Negli anni Trenta, in Spagna, le forze progressiste  riuscirono a  scardinare l’egemonia della destra conservatrice. Nel 1931 fu proclamata la Repubblica e, nelle elezioni del 1936, il Fronte popolare, composto da repubblicani, socialisti, comunisti, anarchici, riuscì ad ottenere la maggioranza dei consensi. Si formò dunque un governo di orientamento democratico con l’appoggio esterno dei socialisti.
La guerra civile scoppiò quando le forze di destra ( falangisti ), guidate da Francisco Franco, tentarono di riprendere con la forza il potere . Il generale Franco occupò con le truppe a lui fedeli diverse regioni della Spagna. La guerra civile proseguì per tre anni. Le forze di destra poterono contare sull’appoggio di Germania ed Italia. Il Fronte popolare ebbe l’aiuto dell’URSS e delle Brigate internazionali, formatesi grazie al concorso di volontari provenienti da tutto il mondo. Hemingway era uno di questi.
La guerra si concluse con la vittoria della destra. Tra i motivi dell’insuccesso del Fronte popolare, le divisioni interne, ben documentate da George Orwell nel suo “ Omaggio alla Catalogna “.




Nel titolo, viene ricordato uno scritto di John Donne, poeta inglese ( 1573- 1651 )                  

"Nessun uomo è un'Isola, intero in se stesso. Ogni uomo è un pezzo del Continente, una parte della Terra. Se una Zolla viene portata dall'onda del Mare, l'Europa ne è diminuita, come se un Promontorio fosse stato al suo posto, o una Magione amica o la tua stessa Casa. Ogni morte d'uomo mi diminuisce, perché io partecipo dell'umanità. E così non mandare mai a chiedere per chi suona la campana: Essa suona per te."

mercoledì 12 maggio 2010

spettatori





Sono sempre stato un sognatore ironico, infedele alle promesse segrete. Ho sempre assaporato, come altro e straniero, la sconfitta dei miei vaneggiamenti, assistendo casualmente a ciò che credevo di essere. Non ho mai prestato fede alle mie convinzioni. Ho riempito le mie mani di sabbia, l'ho chiamata oro e l'ho lasciata scivolare via. ( ...) Ho una specie di dovere di sognare sempre, perchè non essendo altro nè volendo essere altro che uno spettatore di me stesso, devo avere il miglior spettacolo del mondo. Così mi costruisco di oro e di seta, in sale immaginarie (...) fra giochi di luci blande e musiche invisibili.

Fernando Pessoa, Il libro dell'inquietudine 
                                                                             

domenica 9 maggio 2010

venerdì 7 maggio 2010

"Dracula"di B. Stoker








Nel romanzo di B. Stoker, gioca un ruolo importante un’opposizione che si rende subito evidente, quella tra la positiva, chiara, razionale società inglese tardo ottocentesca e l’oscuro, inquietante, primitivo mondo transilvano.
Jonathan, il giovane e promettente procuratore di Exeter, è introdotto, attraverso il viaggio verso il castello del conte Dracula, in una dimensione molto diversa da quella che gli è abituale. Dal monotono, piatto ma rassicurante paesaggio urbano, Jonathan si vede proiettato in un ambiente primordiale, dove boschi selvaggi ed intricati ed aspri e maestosi picchi sembrano scoraggiare la presenza umana. Il senso di disorientamento e di isolamento che Jonathan avverte è il naturale risultato dell’impatto di un uomo di città con un mondo primitivo in cui, il carattere selvaggio della natura, non ancora domata dall’uomo, si impone, generando turbamento, inquietudine.  Dracula, in questo contesto signore e padrone, si presenta come l’incarnazione di quelle forze naturali, pulsioni ancestrali che potenzialmente minacciano la società civile ed il suo ordine. Leggere in quest’ottica il viaggio di Jonathan ed il suo incontro con Dracula significa, allora, riconoscere che gli sforzi di chi al vampiro si oppone (Van Helsing, Seward, ecc.) sono, in realtà, intesi alla difesa di un equilibrio umano e sociale che trova il suo fondamento proprio nella rimozione, nella negazione di ciò che è antico, selvaggio, primigenio. Ordine e disordine diventano, dunque, i due poli dialettici del romanzo. Il male è ciò che rischia di far riprecipitare l’uomo in una condizione oscura, minandone l’equilibrio. Il male è ciò che lavora per la disgregazione di una società organizzata che, definendo per l’uomo precisi ruoli, obblighi e funzioni, lo difende dall’instabilità, consentendogli di vivere in una comunità civile.

domenica 2 maggio 2010

"IL MONDO NUOVO" ( "Brave new World ")



Il mondo nuovo (1932) è un’utopia negativa dello scrittore inglese Aldous Huxley (1894 - 1963).
L’autore delinea una società estremamente organizzata, la cui stabilità è garantita dalla perfetta integrazione di ogni suo elemento nel sistema e dalla conseguente assenza di qualsiasi forma di dissenso o di ribellione. Tutto funziona perfettamente nel mondo di Ford, il suo mitico fondatore, ed ovunque sembra regnare felicità e armonia. Ognuno dei suoi componenti è indotto ad essere soddisfatto di appartenere ad una delle caste in cui la società è divisa e di svolgere le mansioni che gli sono state assegnate. La società, d’altronde, garantisce a tutti svaghi e divertimenti vari e sofisticati, nonché il pieno appagamento dei bisogni primari.
Sarebbe però difficile definire “individui” i componenti di questa società apparentemente perfetta, visto che non hanno alcuna possibilità di sentire, sperimentare qualcosa in modo originale. La loro esistenza è diretta dal sistema che ne determina la natura biologica (attraverso il concepimento in provetta), la funzione sociale (attraverso il condizionamento ipnopedico), nonché lo stile di vita.
Nel mondo di Ford, si antepone alla ricerca della autenticità, la rincorsa al benessere, il quale appare tanto più falso ed artificioso, quanto più emerge la sostanziale debolezza emotiva degli abitanti del mondo nuovo, incapaci di avvertire, scoprire e coltivare la propria individualità e di provare emozioni vere e forti sentimenti. L’amore, il dolore, la passione, la gelosia, l’orgoglio, il coraggio, la paura non trovano posto in un sistema sociale dove i sentimenti sono visti come fonte di instabilità e vanno dunque immediatamente cancellati, rimossi, magari con una buona dose di soma, una droga distribuita gratuitamente dallo Stato. Ma un mondo così organizzato, proprio perché cancella i sentimenti, appare sostanzialmente disumano. La sua unica ragion d’essere è nella convenienza di chi lo regola e lo dirige obbligando i soggetti a produrre ed a consumare ! La disumanità della società fordiana appare ancora più evidente con l’entrata in scena del Selvaggio, un uomo proveniente da un luogo estraneo al sistema, una sorta di ultimo baluardo del vecchio mondo. Il Selvaggio è  “uomo” per la portata delle sue passioni, per la ricerca della solitudine, per il coraggio che lo porta a “scegliere”, a “decidere”, diversamente dagli abitanti del mondo nuovo,  pronti ad uniformarsi ad un modo di fare acquisito e mai messo in discussione. Le uniche figure della società fordiana che paiono avere qualche riserva nei confronti del sistema sono quelle di Bernardo e di Helmholtz. Ma Bernardo è critico soltanto perché non perfettamente integrato per un “errore di laboratorio”, non per motivata e ragionata scelta. Helmholtz appare invece tutto chiuso nella sterile ricerca di un'originalità fine a sé stessa, tutta esteriore e sostanzialmente priva di sostanza, perché priva d'esperienza, di sentimento.  





Il titolo del romanzo rimanda ad un'espressione di Miranda, personaggio de La tempesta di Shakespeare :

O brave new world,
That has such people in't!

( Oh nuovo e mirabile mondo che possiedi simili abitanti ! )